di Stefano G. Azzarà, in corso di pubblicazione su “Contropiano”, n° 4/2007
Nella tradizione religiosa ebraica, il dare nome alle cose – la capacità di intervenire sul linguaggio e dunque sui significati – è indice peculiare di rango e produttività ontologica: nominare è qualcosa di affine al creare, al suscitare la realtà ed è dunque un attributo di dio. Questa riflessione ci aiuta a comprendere in che senso e sino a quale misura gli Stati Uniti di oggi siano diventati una «potenza teologica». Una potenza in grado non solo di concedere grazie ed emettere bandi di scomunica, ridefinendo sulla base dei propri interessi e progetti geopolitici il limes tra l’area della civiltà e quella della barbarie, ma in grado, ancor prima, di rielaborare il significato delle parole e, attraverso di esse, di ristrutturare il senso stesso del mondo.
Dalla teologia siamo con ciò riportati sul terreno concreto della storia e del conflitto. E’ a questa dimensione, infatti, che deve essere ricollegata la grandiosa ma inquietante trasformazione dell’orizzonte politico contemporaneo il cui sintomo è rintracciabile in quei sottili spostamenti semantici che Domenico Losurdo ci presenta nel suo nuovo libro (Il linguaggio dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 2007). Losurdo ci propone in sette parole chiave («terrorismo», «fondamentalismo», «antiamericanismo», «antisemitismo», «antisionismo», «filo-islamismo», «odio contro l’Occidente») il «lessico dell’ideologia americana», ossia i termini basilari di quella nuova «ideologia della guerra» che, come quasi un secolo addietro nel corso del primo e del secondo conflitto mondiale, sta penetrando e plasmando le forme di coscienza dominanti della società “globalizzata”. Lungi dall’essere un fenomeno marginale, ci sembra che tutto ciò abbia una grande importanza perché collegato alla questione dell’egemonia, la conduzione del conflitto politico sul terreno ideologico-culturale.
Sul domenicale del “Sole 24 ore” del 6 maggio Emilio Gentile denunciava la «marea montante di antiamericanismo che si è diffusa nel mondo negli ultimi cinque anni», passando in rassegna i numerosi libri usciti negli ultimi tempi su questo tema, volti per lo più a stigmatizzare questa dilagante «ossessione antiamericana». Sempre in questi giorni è uscito da Einaudi il libro della studiosa Gadi Luzzatto Voghera, provocatorio sin dal titolo: Antisemitismo a sinistra. Si tratta di spie linguistiche significative di un salto culturale, della formazione di un nuovo senso comune, di una visione del mondo potente e onnipervasiva che ha finito per far breccia nella stessa sinistra.
Cosa significano oggi, anche a sinistra, i termini che Losurdo individua come cardini del lessico dell’Impero? Ognuno di essi ha una lunga e complessa storia ed è stato più volte affrontato ed elaborato nell’ambito della tradizione marxista. E però non c’è dubbio: essi hanno subito una strutturale trasformazione semantica. Terrorismo è oggi anzitutto «il prodotto peculiare di una cultura determinata, quella islamica, affetta… dal “culto della morte”» (34) e decisa a impedire la diffusione nel mondo arabo dei valori della civiltà liberale. Fondamentalismo è il carattere «più o meno necessario dell’islam, di una religione cui si rimprovera la permanente incapacità di adattarsi alla modernità» (43). Anche l’antiamericanismo è, del resto, «il sintomo più o meno acuto di un morbo: il disadattamento rispetto alla modernità e la sordità alle ragioni della democrazia» (91). L’antisionismo è di per sé «una forma di antisemitismo» (152), una categoria resa tra l’altro del tutto a-storica e volta a denotare una sorta di malattia perenne, in cui sono coinvolti «Erasmo assieme a Lutero e Calvino, Voltaire e d’Holbach, Kant e Fichte così come Hegel, Marx e Nietzsche» (125). Il filo-islamismo è sinonimo di fiancheggiamento del nemico, perché, come Losurdo cita da Huntington, «il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’islam in quanto tale» (187). Chi, pretendendo di rappresentare il pensiero critico, si macchia di queste «eresie» o «peccati mortali», infine, manifesta tutto il proprio «antioccidentalismo», che lo «porta a deformare il volto sacro della civiltà, della società aperta e libera» e a contestare l’«evidenza solare dell’assoluto primato culturale e morale dell’Occidente» (244) e della sua nazione-guida.
Ha buon gioco Losurdo nello smontare queste posizioni mostrandole come una forma di falsa coscienza. Il terrorismo è anche quello dei servizi segreti americani, delle “esecuzioni extragiudiziarie” israeliane, dei bombardamenti sulle città, dell’embargo come misura di punizione collettiva... Si può dire, anzi, che se esiste un «terrorismo semplice dei deboli», che sopperiscono con forme irregolari di violenza alla sproporzione nei rapporti di forza, esiste anche un «terrorismo molteplice dei potenti» (16), anche se in questi casi, sia nelle cronache che in molte ricerche scientifiche, «è il termine stesso a essere bandito» (4). E il fondamentalismo, che già sul piano concettuale nasce nell’ambito della tradizione religiosa americana, è in realtà «una categoria da declinare al plurale» (47), una questione, cioè, che riguarda tutte le religioni e non esclusivamente l’Islam. Cosa c’è di più fondamentalistico, del resto, del mito dell’Occidente come «nuova Israele» o come «spazio sacro della civiltà», separato da una barriera impenetrabile e spesso naturalisticamente connotata rispetto al mare magnum della «barbarie» di colore che preme alle porte? Non è forse un formidabile fondamentalismo quella forma di coscienza ispirata al Manifest Destiny e all’idea dell’eccezionalismo americano? Davvero, poi, l’antisionismo è una forma di antisemitismo oppure è proprio il sionismo, nel rimuovere la questione coloniale, a configurarsi come una forma di negazionismo estremo che cancella, con la tragedia palestinese, la sorte di tutti quei gruppi esclusi che nel corso della storia hanno subito tragiche forme di discriminazione e che non hanno avuto la fortuna di essere alla fine “redenti” e cooptati nell’ambito della civiltà occidentale? Se è vero che esiste una forma virulenta di odio contro l’Occidente, infine, «perché mai l’islam dovrebbe rispettare e amare l’Occidente più di quanto l’Occidente rispetti e ami l’Islam?» (244).
Queste considerazioni critiche erano un tempo patrimonio comune della sinistra e avevano una larga eco nella stessa opinione pubblica. Il fatto che oggi appaiano anticonformistiche e persino pericolose è l’indice di un grande mutamento nelle forme di coscienza collettiva che è parte integrante della sconfitta storica subita dalle classi subalterne e dai popoli sottomessi di tutto il mondo in quella sorta di guerra civile internazionale che si è conclusa con l’avvio del “momento unipolare” americano. Il conflitto politico-sociale ha una portata integrale e gli eventi che si verificano nel suo corso, i progressi ma soprattutto le battute d’arresto, non lasciano inalterata la sfera ideologica e i suoi rapporti di forza. Prospettare le condizioni minime di un’alternativa di sistema che consentano di uscire dall’attuale fase di riflusso e di rilanciare su nuove basi la lotta politica richiede un lavoro culturale di enorme portata, sia sul piano della memoria che su quello dell’innovazione. Come dice André Tosel, intervenendo su questo stesso libro nell’ultimo numero de “l’ernesto”, «Losurdo ha portato a termine il suo percorso di decostruzione: l’ideologia imperiale è stata messa nudo e può essere pienamente demistificata»; il suo libro «ci affida con ciò un compito, portandoci sulla soglia di quella che dovrebbe essere l’elaborazione di una concezione del mondo “positiva” nel senso gramsciano del termine, capace di unire universalismo concreto e attenzione per la singolarità del reale. Dopo la pars destruens, è giunto il momento di una pars construens».
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